Oltrepassando la frontiera del Gabon sembra quasi di entrare in un altro continente: i villaggi, le strade, la gente e l’ambiente in generale emanano un’aria di benessere in forte contrasto con la miseria che attanaglia la maggior parte dei paesi già attraversati dalla spedizione. Pare quasi che il Gabon voglia essere l’eccezione che conferma la regola: qua il petrolio ha portato prosperità, qua la dittatura ha mantenuto la pace.

Certo, per gli standard occidentali il Gabon non è un paese ricco; ma il suo reddito pro-capite – quattro volte superiore alla media sub-sahariana e più elevato di quello bulgaro e rumeno – è comunque sorprendente. E non si tratta di una distorsione statistica senza riscontri nella realtà: l’indice di sviluppo umano del Gabon è fra i più alti del continente, mentre la percentuale della popolazione che vive con meno di due dollari al giorno – il 19.6% – è fra le più basse. Il decollo economico del Gabon è dovuto alla scoperta di giacimenti di petrolio nei primi anni ’70: mentre nel resto dell’Africa un simile evento segnava l’inizio dei guai, in Gabon riusciva a produrre un forte progresso economico senza provocare guerre e devastazioni. Com’è stato possibile?

La dittatura di Omar Bongo in Gabon assomigliava sotto alcuni aspetti a quella di Eyadema in Togo: tutti e due sono stati al potere per quattro decenni circa; tutti e due avevano lanciato un culto della propria personalità; tutti e due avevano il vizio di nominare ministri i propri figli. Questo parallelismo si infrange però su un aspetto cruciale: mentre Eyadema soffocava nel sangue ogni opposizione, Bongo preferiva annegarla sotto un fiume in piena di petroldollari.

Fin dai primi anni del suo regno Bongo aveva sottoscritto un tacito accordo con la Francia: lui concedeva i diritti esclusivi di estrazione petrolifera alla francese ELF; in cambio l’ex potenza coloniale inviava le forze speciali a sostenerlo quando l’opposizione diventava pericolosa, come durante il tentativo golpista del 18 febbraio 1964. Presto l’aiuto dei paracadutisti francesi divenne superfluo: era molto più semplice comprare il silenzio degli oppositori con gli strabilianti profitti petroliferi. Con 21.5 milioni di dollari Bongo si garantì l’appoggio del suo principale nemico politico, Pierre Maboundou; con l’acquisto di libri e computer per 1.35 milioni di dollari pose fine alle proteste studentesche; con la promessa di cariche ministeriali spuntava regolarmente le armi dell’opposizione. Non c’è da sorprendersi, quindi, che in Gabon regnasse la pace mentre il resto della regione andava a ferro e a fuoco.

Se l’ego del dittatore era piuttosto sproporzionato rispetto ai suoi 152 centimetri di statura, la sua avidità era decisamente smisurata. A forza di prelevare fondi dalle casse statali Bongo entrò nel pantheon degli uomini più ricchi della terra; fra le sue proprietà figuravano 39 case a Parigi, 130 milioni di dollari al Citybank di New York, e un jet privato da 2.6 milioni di dollari. Tutto questo lusso non era comunque sufficiente per distoglierlo da interessi di altro tipo: nel 2004, ad esempio, il suo maldestro tentativo di comprarsi una notte con la Miss Perù di quell’anno causò uno scandalo internazionale.

Bisogna indubbiamente riconoscere che i metodi di Bongo – pur non condivisibili – hanno mantenuto la pace per quarantadue anni, durante i quali la popolazione gabonese ha conosciuto un notevole sviluppo socioeconomico. Ma che livelli di sviluppo avrebbe potuto raggiungere il Gabon, se solo Bongo non avesse gettato i fondi dello stato dietro ai suoi vizi privati? Probabilmente non lo sapremo mai: con la morte del dittatore nel 2009 il potere è passato a suo figlio, che riallaccia così il parallelismo con il regime ereditario del Togo.

La prossima frontiera sulla rotta di Overland 12 è quella con la Repubblica del Congo,  che a differenza del Gabon rientra, purtroppo, nella normalità del continente africano: scopriremo il perché nel prossimo approfondimento.

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