Ormai non si contano più: le emergenze umanitarie incontrate lungo la rotta di Overland 12 sono talmente numerose da essere diventate uno dei temi di fondo della spedizione. Non fa eccezione il Sudan, una nazione dove il governo in carica è il principale artefice di due crisi umanitarie spaventose.
In Sudan, il rapporto fra il nord islamico e il sud cristiano e animista è sempre stato molto conflittuale, tanto che il governo coloniale britannico amministrava queste due aree separatamente. La rottura definitiva arrivò nel 1956, col sopraggiungere dell’indipendenza: davanti ai tentativi del nord di imporre l’Islam al sud, l’esercito di stanza nel meridione si ammutinò e dette avvio alla prima guerra civile sudanese. Diciassette anni e cinquecentomila morti dopo le due parti firmarono una pace fragile, frantumata nel 1983 dalla decisione del governo centrale di applicare la Shari’a – la legge islamica – nelle regioni del sud. Nel 1989 un colpo di Stato consegnò il potere ad Omar al-Bashir, che trasformò il Sudan in una dittatura islamica; a metà degli anni ’90 al-Bashir arrivò addirittura ad offrire asilo ad Osama Bin Laden e cinquemila jihadisti di Al-Qa ’ida.
La seconda guerra civile sudanese, terminata solo nel 2005, ha lasciato sul campo due milioni di morti e quattro milioni di rifugiati in condizioni drammatiche. Con gli accordi di pace le regioni meridionali hanno conquistato una relativa autonomia, e il 9 gennaio 2011 si terrà un referendum sulla loro secessione dal Sudan. La vittoria dei “si” è scontata, tanto che il governo del sud sta già costruendo un nuovo palazzo presidenziale nella propria capitale amministrativa. Non è altrettanto scontato che la secessione venga accettata da Omar al-Bashir: la maggior parte dei pozzi petroliferi del Sudan, infatti, si trova nelle aree meridionali. Se l’esperienza dei 26 Stati africani attraversati da Overland 12 insegna qualcosa, è che la presenza di petrolio nel Sudan meridionale renderà molto più difficile una soluzione pacifica della crisi.
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Non sembra esserci soluzione in vista, invece, per la crisi umanitaria che tormenta il Darfur, nel Sudan occidentale, dove la desertificazione, la povertà estrema e le risorse naturali sempre più scarse hanno innescato una brutale lotta per la sopravvivenza. Dal 2003 le popolazioni nere del Darfur sono oggetto di un vero e proprio genocidio, perpetrato dalle milizie arabe Janjawid. Ma il vero responsabile di questa strage è Omar al-Bashir, che ha sempre appoggiato il progetto di supremazia araba delle milizie Janjawid logisticamente e militarmente. Le vittime sono già quattrocentomila. Nel marzo 2008 e nel luglio 2010 la Corte Penale Internazionale ha emesso due mandati d’arresto nei confronti di al-Bashir, accusandolo di crimini contro l’umanità e di genocidio; il dittatore sudanese è diventato così il primo capo di Stato in carica ricercato internazionalmente. Ciò non sembra turbare al-Bashir, che – in rappresaglia contro la decisione della Corte – ha espulso sedici organizzazioni umanitarie occidentali, senza alcuna considerazione per i ventisettemila bambini del Darfur che muoiono ogni anno per malattie facilmente prevenibili.
La crisi del Darfur non si presta a soluzioni lineari, come la secessione auspicata dal Sudan meridionale: nel Sudan occidentale manca una maggioranza etnica, linguistica o religiosa attorno alla quale si possa costituire un governo stabile e autonomo. Piuttosto va avviato urgentemente un processo di pacificazione sociale, sull’onda di quanto è avvenuto in Ruanda dopo il genocidio del 1994. Se la dittatura di al-Bashir permettesse alle organizzazioni umanitarie di fare il loro lavoro, e soprattutto se smettesse di fomentare l’odio interetnico e di armare le milizie, tutto sarebbe più facile; è tristemente ironico che l’unica persona in grado di fermare il genocidio ne sia la causa principale. Non resta che augurarsi che al Bashir compaia presto davanti alla Corte Penale Internazionale: ma questa, purtroppo, è utopia.